IN PADULE A FRIGNO’LO
RACCONTO DI PESCA ALLE RANE CON LA BARCA.
Dedico questo mio racconto all'amica Esperanza.
Così viene chiamato questo tipo di pesca o meglio di raccolta delle rane nel padule di Fucecchio. Attenzione si chiama frignòlo e non frìgnolo.
L’odore dolciastro dell’acqua stagnante aveva impregnato l’aria di quella tiepida notte di fine giugno e si avvertiva molto prima di arrivare in padule.
Avevamo pedalato velocemente ed in meno di mezz’ora, stavamo già attraversando l’abitato di Anchione, ci fermammo al bar il Gattopardo per una bibita e poi via, proseguimmo per la nostra meta.
La strada asfaltata finì, lasciando posto ad una strada bianca polverosa, dove la ghiaia, a causa del passaggio di qualche automezzo pesante, era ammucchiata sui cigli ai lati della carreggiata e bisognava stare attenti a non metterci le ruote delle nostre bici, rischiando una brutta caduta.
Dai fossi che correvano ai lati della strada, i ranocchi, intonavano senza interruzione la loro litania fatta di un gracidare composta di un’unica nota ripetuta all’infinito, qualche incauto anfibio, era salito fin sulla strada e al nostro passaggio, si affrettava con un solo balzo a rituffarsi a capofitto nell’acqua.
Alla nostra destra intravedemmo la sagoma di un fabbricato che assomigliava ad una grossa capanna, si trattava della chiesa del paese, riconoscibile come edificio religioso unicamente per la croce di metallo sistemata sul colmo del tetto, attaccata alla Chiesa c’era una modestissima abitazione dove abitava il parroco, da una finestrella trafilava una fioca luce che illuminava il piccolo cortile ancora ingombro della legna avanzata dall'inverno.
Questo luogo e l'insieme degli edifici veniva chiamato la dogana, non ne ho mai capito il motivo ma quello era il suo nome, proprio in corrispondenza della dogana, la strada terminava, cedendo da lì in avanti spazio ad un intreccio di stretti viottoli percorribili solo da veicoli a due ruote o da qualche piccolo barroccino o triciclo cassonato, usati per trasportare il falasco o la gaggìa usata per vestire i fiaschi o le damigiane.
L’intrecciarsi dei viottoli non ci confuse, svoltavamo a destra o a sinistra con sicurezza, prendendo sempre quello giusto, avendo già fatto il tragitto parecchie volte di giorno, quando andavamo a pescare gli orologi o i pesci gatto, innescando dei grassi lombrichi, oppure i ranocchi col boccone.
Sulle biciclette di noi quattro amici avevamo sistemato tutto l’occorrente per il frignòlo, dentro capaci sporte di paglia i cui manici erano infilati nel manubrio.
Chi portava il lume a carburo, chi la tradizionale zucca dove sistemare le rane, chi il retino per la raccolta, e chi, gli arnesi da scasso.
Sissignori, perché per fare quella pesca occorreva una barca e la barca appunto doveva essere presa in "prestito", tutte le barche erano incatenate e chiuse da un robusto lucchetto, per fare pochi danni avremo tagliato l’anello più vicino al lucchetto affinché potesse essere riutilizzata facilmente, ma sempre di una cosa illecita si trattava.
Sapevamo anche che se ci avessero beccato avremmo passato un guaio, ma sia per la giovane età, sia per il gusto dell’avventura questa possibilità non venne tenuta in grande considerazione.
Dopo un quarto d’ora di prudente pedalata, arrivammo sul bordo di un porticciolo dove sorgeva una minuscola casetta in muratura, chiamata da tutti: il casin del Lilo, non so se questo fosse il suo vero nome ma così veniva chiamata.
Una volta posata la bici mi resi conto dell’intenso gracidare delle rane, milioni e milioni disseminate per l’intera superficie del padule, facevano sentire la loro voce, alcune biscie acquatiche scappavano davanti ai nostri piedi strisciando nell'erba per poi scomparire in acqua.
Senza più l’ausilio dei fanali delle bici, il buio ci inghiottì e solo le nostre voci ci facevano capire dove fossimo, decidemmo così di accendere immediatamente il lume a carburo che avevamo preparato prima di partire, versammo un po’ d’acqua prelevata da una bottiglia portata da casa nell’apposito serbatoio, aiutati dalla luce di un accendino, aspettammo un minuto che si creasse l’acitilene e poi accendemmo il nostro lume a parabola.
La luce, molto intensa, vinse in un attimo l’oscurità ed il paesaggio si materializzò: la bionda cannella palustre la faceva da padrona e solo i viottoli restavano liberi dalla sua invadenza, nell'acqua presero forma una decina di barche in legno di colore nero catrame, di diverse dimensioni, tutte incatenate ad un tutore ben impiantato profondamente.
Dal mio babbo avevo saputo come venivano chiamate queste barche a seconda della loro forma e dimensione, le più piccole, con la prua coperta per una piccola porzione, si chiamavano barchini, quelle un po’ più grandi, tutte aperte, venivano chiamate barchette e quelle notevolmente più grandi, anche queste tutte aperte, si chiamavano navicelli.
Queste barche a fondo piatto, si muovono tramite una lunga pertica, con una piccola forca finale, l’insieme viene chiamato forcino, la barca viene spinta dal barcaiolo, stando in piedi, spostato leggermente a poppa.
Per navigare, si pianta il forcino sul fondo e con questo si spinge moderatamente, facendo scorrere la pertica tra le mani fino quasi al suo termine, poi si ritira il forcino piantandolo di nuovo sul fondo e spingendo nuovamente.
La direzionalità della barca viene data dal barcaiolo con i piedi, facendola girare a destra o a sinistra, oppure per andare dritto, occorre avere un senso innato dell’equilibrio, perché sotto i piedi, durante la spinta, la barca si piega da un lato, fortunatamente mi ero cimentato più volte con il piccolo barchino del babbo e sapevo esattamente cosa fare e come farlo.
La scelta della barca più adatta, venne lasciata al sottoscritto, naturalmente mi orientai su un navicello e scelsi quella che aveva il fondo asciutto, prendemmo le grosse cesoie dai lunghi manici e in un attimo tagliammo l’anello della catena, liberando la barca e il forcino.
Feci salire i tre amici, con prudenza, facendo le raccomandazioni d’obbligo, cioè quello di non muoversi bruscamente, mettendomi in difficoltà, era necessario muoversi lentamente senza comrpromettere il mio equilibrio, pena un bagno non previsto né voluto.
Spiegai che la barca doveva muoversi alla rovescia, cioè con la poppa in avanti, questo perché essendo la barca più larga di poppa, due ragazzi potevano stare affiancati, uno di loro sarebbe stato l’addetto al lume, mentre l’altro, con il retino avrebbe insaccato il ranocchio.
Iniziai a spingere la barca, l’acqua non era più alta di un metro, forse meno, uscito dal porticciolo imboccai il canale a sinistra che avevamo scelto per la nostra avventura.
Franco e Luigi si erano sistemati a poppa, uno con il lume a carburo e l'altro con il retino per catturare gli ambiti anfibi, Sergio invece sedeva subito dietro di loro con la zucca pronta a ricevere le rane, che qui, nel padule di Fucecchio vengono chiamati esclusivamente ranocchi.
Appena imboccato il canale apparve uno spettacolo inconsueto, la superficie era completamente ricoperta dalle lenticchie d'acqua, tanto da farla apparire come un prato verdissimo rasato di recente, qua e là, come in un giardino fiorito, si pavoneggiavano alla luce del lume, le grandissime ninfee con i loro stupendi colori dal bianco immacolato al rosa acceso, la scia che si creava al passaggio della barca veniva immediatamente occultata dal richiudersi delle minuscole foglioline galleggianti.
Le piccole sporgenze che si intravedevano sulla liscia superficie erano le teste dei ranocchi, guidato dalla luce mi avvicinavo lentamente fermandomi alla giusta distanza per dar modo a Luigi di immergere il retino sotto il ranocchio e catturarlo, il retino veniva poi passato a Sergio che s'incaricava di incamerare la preda e restituirlo pulito.
Alcuni topi campagnoli, qui chiamati impropriamente talpe, attraversavano frettolosamente il canale abbagliati ed impauriti da quell'insolita luce.
Sulla nostra destra comparve uno stretto e corto fossato che faceva immettere in un "chiaro", il chiaro è uno specchio d'acqua abbastanza esteso, tenuto libero dalle cannelle e dalle erbe palustri, al fine di attrarre, durante il periodo di caccia, i palmipedi come oche, germani, codoni, fischioni, alzavole, per impallinarle.
Feci girare la barca e scivolando tra le sponde entrammo nella laguna, qui il gracidìo, lo avevamo già avvertito, era particolarmente forte, infatti, al centro dello specchio d'acqua si trovavano ammassate l'una sull'altra un incredibile numero di rane in frega.
Franco le illuminò con il faro ed io con la massima prudenza mi avvicinai lentamente.
Ecco, eravamo proprio a portata di retino, Franco nell’eccitazione si mosse troppo velocemente facendomi perdere l’equilibrio, per riprendermi dovetti appoggiarmi al forcino e nel movimento feci girare leggermente la barca andando addosso al gruppo di rane intente all’accoppiamento.
Alcune di loro, si immersero impaurite, mettendo in allarme tutto il gruppo, che smise di gracidare, dissi a Franco di fermarsi, sicuramente il retino le avrebbe finito di impaurirle facendole scappare tutte, dissi a tutti di restare immobili, aspettando che il gruppo si calmasse.
Attendemmo alcuni minuti parlottando tra noi sul daffarsi, ma ebbi ragione, alcune delle rane che si erano impaurite, le vedemmo riemergere e nuotare verso il punto di raccolta e ricominciarono con il loro canto, mi avvicinai ancor più, la prima retinata doveva essere quella con maggior prede possibile, non sapevo assolutamente se ce ne fosse stata una seconda.
Franco affondò il retino sotto le rane e lo sollevò lentamente, una dozzina di ranocchi saltellavano sul fondo cercando di riprendere la libertà, Sergio s’incaricò di metterli al sicuro nella zucca, il branco si era un po’ allarmato e si era allontanato di qualche metro, ma ormai conoscevamo il trucco, una decina di minuti dopo si ammassarono ancora iniziando a gracidare tranquillamente, mi avvicinai per un secondo prelievo.
Questa volta avemmo più fortuna prendendone una ventina, aspettammo fiduciosi che ci fosse una terza volta ma rimarremmo delusi, il gruppo non si riformò più, qualche rara testa si intravedeva qua e la, ma avvicinandomi scomparivano allarmate sott’acqua.
Dalla sponda si alzò una folaga in volo, protestando con il suo vociare metallico per essere stata disturbata dalla luce, attraversò quasi al pelo dell’acqua tutto il chiaro, per poi posarsi di nuovo nascosta dalla cannella.
Uscimmo anche noi attraverso il fossato e ci ritrovammo nuovamente nel canale, continuammo nella pesca dei singoli o al massimo delle coppie e nell’ora successiva ne prendemmo un’altra dozzina.
Erano ormai le una e decidemmo di smettere, facemmo un’altra capatina dentro il chiaro per vedere se si fosse riformata la frega, ma niente da fare, per quella notte non ci sarebbe più stata l’orgia.
Ritornammo nel porticciolo e rimettemmo la barca al proprio posto, rincatenandola alla meglio, scendemmo a terra con i vestiti un po’ incatramati: il catrame usato come vernice non secca mai completamente.
Prima di spengere il lume prendemmo le biciclette rimettendo a posto l’attrezzatura usata nelle borse, i ranocchi li avrebbe presi Luigi; sua mamma si era offerta, insieme al marito, di preparaci un risotto sui ranocchi e una parte di farceli fritti.
Riprendemmo la strada del ritorno, accompagnati dal gracidare delle rane che sembravano darci l’addio.
Lungo la strada, conversando tra noi, ripercorremmo tutte le vicende della battuta di pesca che per noi ragazzi era stata abbastanza avventurosa, ripromettendoci di ripetere questa entusiasmante esperienza.
Passarono una quindicina di giorni e dopo aver assaporato la bontà dei piatti preparati dalla mamma di Luigi, ci ritrovammo per un’altra battuta a frignòlo……….ma questa è un’altra storia.
Bruno P.